Intervista pubblicata ne "Il giornale di Vicenza"

di Paolo Rolli

estate 1987

P.R. Scapin, Lei con il suo Laboratornio in via della Campana 14 è uno degli artigiani del Mandamento di Schio.

 

G.S. Mah, il termine artigiano è un'etichetta che mi sento mal volentieri addosso perché è uno dei termini che in questi ultimi tempi ha assunto un'ambiguità semantica ormai irreversibile. Il termine artigiano richiama il mestiere del passato, il mestiere che si esercitava con le mani ( in inglese craftmen ed handicraft), mentre oggi nell'accezione socialmente corrente è colui che gestisce un'impresa fino a 15 addetti e coadiuvato da macchinari vari che danno una produzione tutta uguale, di serie. In secondo luogo abbiamo l'artigiano di servizio e l'artigiano creativo e forse in quest'ultima categoria posso identificarmi.

 

P.R. Come è avvenuta questa scelta? Lei è figlio d'arte?

 

G.S. No, no, mio padre era macellaio della sua città nativa ed io ho rotto la continuità del mestiere di famiglia( nonni, zii, bisnonni). A me da giovane interessavano gli studi classici, la filosofia ed avvenne proprio nel periodo universitario di aver incontrato Daniel de Montmollin, colui che ho sempre ritenuto il mio maestro e il mio "dirottatore di vita".

 

P.R. Che cosa Le disse di particolare per farlo cambiare?

 

G.S. Nulla, non mi disse proprio nulla. Mi mostrò il suo laboratorio con le terre da lui impastate, gli smalti macinati e poi chiamò un suo allievo basco e gli ordinò di mostrarmi come si torniva un vaso. Ecco, il vedere come i polmoni si gonfiavano nel suo petto contemporaneamente al rigonfiamento del vaso mi diede un'emozione perché capii che quell'uomo aveva raggiunto la sua completezza: lui era il vaso ed il vaso era la sua manifestazione. Capii che le mie ricerche speculative erano un'astrazione e che, continuando a studiare, rischiavo una ipertrofia mentale ed una dissociazione dal mio corpo. Quell'allievo di Daniel aveva raggiunto un equilibrio armonioso fra il suo cervello, le sue membra ed il suo cuore. Tutto si ritmava in sincronia: la respirazione, la pulsione del sangue, la tensione muscolare, lo sguardo furtivo, l'orecchio, tutto. Era l'uomo completo. Insomma, ecco: era l'artigiano.

 

P.R. Ma perché poi la scelta della ceramica?

 

G.S. Appunto perché ho incontrato Daniel, un ceramista. Ma forse vi è di più e l'ho scoperto dopo. Infatti compresi che se volevo diventare pittore, dovevo conoscere la pittura: se volevo diventare scultore, dovevo conoscere la scultura, ma se volevo diventare un ceramista, dovevo conoscere sia la pittura che la scultura e così scelsi anche questa volta la via della completezza.

 

P.R. E cos'è per Lei la ceramica oggi?

 

G.S. Se devo rispondere con una battuta devo confessare che per me la ceramica è una droga: più mi ci dedico e più mi dà assuefazione e più mi prende la voglia di scoprire nuove forme e di sperimentare nuovi effetti e nuovi smalti. Si rischia la mania nel significato greco del termine, cioè la ricerca ossessiva. Però se devo rispondere più seriamente la ceramica è per me il recupero dell'unicità dell'oggetto creato, quale riflesso dell'unicità della mia esistenza. E qui addio produzione di serie, macchinari, marcheting! Il vaso, la scultura, il pannello ha vita ed espressione proprio attraverso di me. E con questo spirito io restituisco alla natura in maniera cosmica, cioè ordinata, ciò che essa mi ha offerto in modo caotico. Non penso di osare troppo a definirmi un "demiurgo".

 

P.R. Ma allora tutti i suoi studi precedenti?

 

G.S. Servono, servono. È l'"humus" di base che aiuta a creare delle forme dotate di corporeità e di memoria, serve a creare degli strumenti gnoseologici ed espressivi di una nuova poetica del nostro abitare: serve a mettersi su un piano del "fare", che in verità è un "essere"; serve perché questa cultura mi costringe continuamente a chiedermi non tanto che cosa sto facendo, ma "come" lo faccio e "perchè" lo faccio; serve a capire che l'intelligenza non sta solo nel piano superiore, ma anche nelle mani, nei piedi, nel cuore, negli occhi, in tutto il nostro corpo.

 

P.R. E con i suoi allievi?

 

G.S. Mah, ultimamente ho avuto un'olandese, quello laggiù è Steen, un danese con il quale mi sto organizzando per ripetere l'esperienza di una cottura con un forno di tipo celtico. A lui e agli altri allievi italiani cerco di trasmettere la vibrazione di questo modo di sentire l'arte e la vita. E capiscono sì. Le nuove generazioni pretendono una dimensione spirituale del mestiere.

 

P.R. E queste sue bambine? Vorrebbe che seguissero il padre?

 

G.S. Io non voglio nulla: solo la loro libera scelta. Certo che in casa e nel mio studio respirano un'aria non comune. Se la teoria genetica ha valore, sia in Alba che in Isa, prima o poi si risveglierà quell'amore all'arte che io e mia moglie Antonietta abbiamo trasmesso loro con il sangue e con il lavoro.